La qualità non esiste.
Se esistesse ci sarebbe una sua definizione semplice e condivisa. Invece non c’è.
Se cerchi nel dizionario alla voce qualità trovi due pagine di spiegazione. Questo significa che abbiamo a che fare con un concetto che sfugge alle definizioni. Questo significa che abbiamo a che fare con un concetto molto aleatorio.
Parlando di marketing, cosa si intende esattamente quando si parla di qualità? Fare alta qualità è sempre un vantaggio?
La qualità ci mette al riparo dalle crisi?
Spesso succede proprio così, il mercato d’alta gamma è quello che risente meno delle crisi. Chi ha potere d’acquisto riesce a mantenere invariati i suoi consumi e il proprio stile di vita anche quando l’economia subisce contraccolpi.
Eppure… Sì, c’è un eppure.
La qualità si rivolge spesso a una nicchia e, in certi comparti, come quelli nei quali i beni sono durevoli, si può arrivare presto a saturazione. Chi ha già acquistato il prodotto, infatti, non lo riacquisterà, e questo potrebbe diventare un problema.
A questo punto avremmo un brand posizionato in cima alla classifica in termini di qualità che resta orfano di clienti.
C’è una via d’uscita?
Ci sono vari strumenti che si possono attivare, dall’obsolescenza programmata, all’obsolescenza vera e propria…
Spesso però quando si ha a che fare con una domanda rarefatta la via che porta a una concreta crescita dell’impresa è l’ampliamento del mercato da servire, dove la propria offerta può pescare in un mercato vergine le proprie buyer persona.
Una volta questo poteva essere un problema. Oggi non lo è più perché esistono gli smartphone.
Ma cosa succede quando il bene non è durevole, ma è un prodotto di consumo, in cui i competitor si posizionano su vari livelli di eccellenza? Come potrebbe essere il caso di un cioccolato, o di un olio extravergine. Certamente non avremmo il problema del riacquisto. Il prodotto si consuma e viene riacquistato.
Beh, ma se è così abbiamo a che fare con un mercato con un’unica barriera d’accesso, l’alta qualità, ma pieno di fessure in cui un concorrente potrebbe infilarsi. Sarebbe sufficiente fare un prodotto eccellente per riuscire a generare le proprie quote.
“Produco un cioccolato con le materie prime migliori, seguendo il processo più rigoroso e ottengo un prodotto di qualità. Nel turn over del riacquisto ingaggerò la buyer persona che vuole sperimentare qualcosa di nuovo e mi apro così una breccia da cui partire per acquisire quote di mercato”.
Niente di più semplice.
Ma nella realtà sappiamo che non è così.
Perché non è così?
Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro, al concetto di qualità e alla sua evanescenza.
Perché il concetto di qualità è così sfuggente? Perché la qualità non è un attributo vero in sé, la qualità deve essere riconosciuta.
E qui le spiegazioni razionali non valgono più. Abbiamo a che vedere con una configurazione di aspettative emotive, culturali, affettive e sensoriali che costituiscono il mondo nel quale la buyer persona posizione le marche e i prodotti nella sua personale classifica e stabilisce cosa è di qualità e cosa non lo è, cosa gli piace e cosa no.
Non è solo una questione di gusto. O meglio, ciò che chiamiamo gusto è proprio un’ibridazione di tutti questi fattori.
Non scegliamo un caffè ma il suo luogo di provenienza, o perché lo leghiamo a un ricordo personale. Non chiamiamoli necessariamente preconcetti. Anche se abbiamo proprio a che fare con dei pre-concetti, ovvero con delle idee e delle suggestioni precostituite.
Ad ogni modo è proprio su elementi come questi, che abbiamo stabilito essere fattori discriminanti, creiamo il nostro concetto di qualità, che alla fine altro non è che una nostra proiezione ideale a cui pieghiamo spesso anche la realtà dei fatti. E non è così difficile piegarla, per il semplice motivo che la realtà dei fatti, soffre del medesimo disturbo della qualità, risente dei punti di vista.
Chi ha stabilito che il caffè per essere perfettamente espresso deve essere di qualità arabica?
Pertanto, lavorare sulla qualità non significa lavorare esclusivamente sul prodotto, significa lavorare, anche, se non principalmente sulla sua componente immateriale, ovvero sulla proiezione di aspettative della buyer persona.
La buyer persona torna quindi a riprendersi la sua centralità sul prodotto, perché sarà lei e solo lei a stabilire cosa è di qualità e cosa non lo è.